Lo stress negli animali: da una prima visione meccanicistica alla soggettività animale.

Ebbene si, anche gli animali si stressano!

Ma, innanzitutto, cos’è esattamente lo stress?

Lo stress esprime una reazione fisiologica dell’organismo, il cui studio in ambito biomedico

risale a circa un secolo fa da studi svolti sugli animali dal fisiologo Walter Cannon e poi successivamente formalizzati dall’endocrinologo Hans Selye.

Cannon definiva lo stress enfatizzando l’attivazione fisiologica del sistema nervoso autonomo come reazione a stimoli fisici o psicologici (Cannon, 1911). Definì questa reazione come flight-fight (lotta-fuga), prodotta dall’attivazione del sistema nervoso simpatico e dalla sua azione sul rilascio dell’ormone adrenalina dalla midollare del surrene e di noradrenalina direttamente dalle terminazioni simpatiche.

Successivamente, Selye osservò che nei ratti sottoposti a eventi spiacevoli la risposta allo stress non riguardava solo l’attivazione del sistema nervoso simpatico (ulcere peptiche nella parete dello stomaco), ma coinvolgeva anche il sistema endocrino (ghiandole surrenali ingrossate) e il sistema immunitario (involuzione del timo).

Selye definì lo stress come una “sindrome generale di adattamento”, cioè una risposta aspecifica del corpo composta da processi autonomi, ormonali, immunitari e neuropsichici, messa in atto dall’organismo per adattarsi a delle sfide esterne, nella quale distinse tre fasi:

  • una fase iniziale di “allarme”, in cui avviene la risposta “fight or flight”, attraverso il rilascio nel circolo sanguigno di catecolamine che hanno la proprietà di agire per pochi secondi;
  • una fase successiva di “adattamento o resistenza”, durante la quale l’organismo tenta di ripristinare l’equilibrio contrastando gli effetti negativi dell’affaticamento prolungato, stimolando l’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-surrene a produrre glucocorticoidi, come nel caso di sfide acute di varia natura (ad esempio, uno spavento, il parto, lo svezzamento, il trasporto, ecc.),
  • un terzo stadio di “esaurimento”, in caso di stress prolungato. In questo caso se l’organismo non riesce a ristabilire l’equilibrio sopraggiunge la malattia da stress, mentre, se il corpo è riuscito ad eliminare gli effetti dello stressor, avviene il “recupero”.

 

Selye concluse che:

  • il corpo produce una serie di risposte sorprendentemente simili di fronte a una vasta schiera di stressor;
  • se gli stressor si protraggono troppo a lungo possono farci ammalare.

Mentre nella visione di Seyle lo stress era una risposta legata a fattori esterni in cui l’intensità di tale risposta veniva associata all’intensità dello stimolo stressante (Selye, 1936), successivamente, nei primi anni settanta studiando le scimmie, Mason si accorse che non erano gli stimoli in quanto tali a produrre stress, ma piuttosto il modo in cui questi stimoli venivano percepiti soggettivamente dagli animali, concludendo che le situazioni potevano scatenare stress solo quando gli individui le percepiscono come avverse (Mason, 1971).

A partire da questo momento in poi, gli studi sullo stress degli animali iniziarono ad abbracciare sempre maggiormente la componente psicologica ed emotiva alla base dei processi interpretativi degli stimoli definiti stressanti.

Negli anni 80 Lazarus e Folkman introdussero il concetto di stress psicologico sottolineando gli aspetti cognitivi dell’interazione tra il soggetto e il suo ambiente.

Quindi lo stress riguarda a pieno titolo il mondo animale!

Abbiamo visto che si tratta di un meccanismo scoperto attraverso osservazioni svolte proprio sugli animali, e che si manifesta attraverso specifiche reazioni a cascata messe a punto dall’evoluzione, con la specifica finalità di consentire all’organismo di preservare la sopravvivenza e l’equilibrio, adattandosi all’ambiente e rispondendo alle necessità primarie di difesa, di ricerca di cibo, di confort e di accoppiamento.

Quando un animale si trova di fronte ad una situazione, gli stimoli che gli arrivano dall’esterno attraverso “la via bassa” (Le Doux, 1998) raggiungono delle specifiche regioni del cervello (il talamo e l’amigdala) che sulla base delle memorie e delle esperienze vissute dall’animale reagiranno di conseguenza.

Se questi stimoli verranno riconosciuti ostili dal cervello, attiveranno immediatamente la risposta del sistema nervoso simpatico e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene di “lotta o fuga”, con tutti gli adattamenti fisiologici necessari a fronteggiare il pericolo: l’attività cardio-circolatoria e la frequenza del respiro aumentano per portare sangue e ossigeno alle cellule dei muscoli, cioè a quelle parti del corpo che hanno più bisogno di energia per permettere all’animale di scappare (di darsela a gambe, diremmo noi), sottraendo risorse all’apparato digestivo, immunitario e riproduttivo, cioè a quelle parti del corpo meno prioritarie a far fronte a un momento di allarme.

Allo stesso tempo la sensibilità sensoriale di vista e udito e la cognizione si fanno più acute, mentre si produce un’analgesia temporanea dei tessuti in modo da non sentire dolore anche in caso di eventuali ferite prodotte durante la lotta o la fuga.

Mentre in passato si riteneva che la risposta allo stress derivasse da un processo di attivazione nell’organismo, oggi si ritiene che questa risposta allo stress sia una risposta di default costantemente inibita dall’azione del nervo vago (X nervo cranico).

Sul ruolo inibitore del nervo vago si fonda la teoria polivagale di Porges (Porges, 2003; 2007) che descrive una sorta di organizzazione gerarchica nel nervo vago in due parti: una parte dorsale, più antica, la sola presente nei vertebrati, nei rettili e gli anfibi, e una parte più recente ed evoluta presente nei mammiferi, alla base delle loro abilità sociali ed emotive.

Quando i rettili, gli anfibi e gli altri animali evolutivamente più antichi si trovano di fronte ad una minaccia o prima dell’eventuale attacco, la parte del nervo vago più antica (vago dorsale) permette loro di mettere in atto la risposta difensiva più semplice di “congelamento o freezing”.

Mentre i mammiferi, quindi noi stessi e gli altri animali con i quali ci relazioniamo maggiormente come cani, gatti, cavalli, ecc., in quanto provvisti di entrambe le branche del nervo vago (dorsale e ventrale) di fronte ad un pericolo mettono in atto prima la risposta di “lotta o fuga” e solo se questa non è possibile, ricorrono al freezing.

Quando gli animali percepiscono un pericolo o un segnale di incoerenza nel loro ambiente (come ad esempio nei nostri comportamenti nei loro confronti) il loro nervo vago smette di inibire l’impulsività, l’animale va in stress (pronto all’attacco, la fuga o resta immobile), e le sue abilità sociali, la sua fiducia e la sua apertura verso gli altri vengono meno.

Alla luce delle nuove evidenze sulla senzienza animale anche il concetto di benessere animale sta cambiando. La ricerca si sta interrogando sempre maggiormente su questioni legati al mondo emotivo e cognitivo degli animali e sulle dinamiche che vedono protagonista la nostra relazione con loro.

Visto che gli animali sono esseri come noi senzienti e sensibili, nel considerare il loro benessere diventa centrale considerare anche i loro stati interni e le condizioni ambientali che hanno prodotto questi stati. 

Stress e benessere sono strettamente correlati. Sono aspetti opposti legati agli stati mentali ed emotivi e dipendono entrambi da come un animale percepisce il suo ambiente in termini di novità, prevedibilità, controllo e altro (Dawkins, 2006).

Indipendentemente dalla specie, il principio fondamentale alla base del benessere animale risiede nella relazione tripla tra mente, corpo e ambiente: il corpo interagisce con la mente che a sua volta interagisce con l’ambiente. Di conseguenza il benessere soggettivo di un’animale deve tenere in conto questi tre aspetti: la salute fisica, la salute mentale e l’ambiente nel quale l’animale è inserito (Mc Millan, 2005)

i.

Riferimenti

 

Cannon, W.B. and de la Paz, D., 1911. Emotional stimulation of adrenal secretion, Am, J. Physiol., 28: 64-70.

Selye H. A syndrome produced by diverse nocuous agents. Nature. 1936;138: 32–3.

Mason JW. A re-evaluation of the concept of ‘non-specificity’ in stress theory. J Psychiatr Res 1971;8:323–33.

MCMILLAN, F.D. Mental health and well-being in animals. Blackwell Publishing, Iowa, USA, 2005, p.301.

Dawkins, M.S. Quality of life, good welfare and the animal’s point of view.

In: Universities Federation for Animal Welfare (Ed.), Quality of life: the

hart of the matter; 2006, n.p.

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